Una sgridata dell’insegnante per compiti non fatti. “Mi sono sentito umiliato”. E si chiude in casa e per sette mesi non va a scuola. Una spirale. “Non vado perché gli amici mi chiederanno come mai manco da tanto”. Così quel quattordicenne diventa un hikikomori, termine giapponese che indica quei giovani che decidono di ritirarsidalla vita socialeper lunghi periodi. Per loro la propria cameretta diventa un riparo da ansia e stress.
La sua storia, a lieto fine, è raccontata da Matteo Castagnoli su “Il Corriere della Sera”. “Dormivo dalle 8 alle 18. La cena era il mio pranzo. Poi stavo sul letto con il pc, tra serie tv e video, fino al mattino. Lì nessuno urlava. Nessuno mi stressava”. Gli unici amici erano quelli conosciuti online. “Ci giocavo il pomeriggio e la sera. Mi piace stare in compagnia, contrariamente a quanto possa sembrare: ma quella era la mia comunità. Non mi ritrovavo nel divertimento dei miei compagni”. L’abuso tecnologicocome conseguenzadel disagiosociale.
Non si sa quanti hikikomorici siano in Italia, ma in Lombardia sono 250 le famiglie con figli in ritiro volontario che partecipano alle attività di auto-mutuo aiuto dell’associazione “Hikikomori Italia genitori”, con sei gruppi gratuiti coordinati da uno psicologo.
Torniamo alla nostra storia. Cambia scuola, i primi mesi vanno bene, poi un compagno prova a tirargli un pugno. Di nuovo a casa fino a fine anno. “Che cosa faccio di male? Forsesono io il problema?”. Fobia post traumatica per la scuola è l’esito. Grazie anche all’educazione domiciliare, finisce le medie, poi un istituto informatico. Fortunatamente non diventa un hikikomori cronicizzato, la sua stanza non sarà mai ricolma di spazzatura, anche se con il Covid, le assenze tornano ad accumularsi. Il fatto è che – commenta l’articolo – ogni cambiamento si traduce in uno squilibrio.
La svolta arriva quando conosce una ragazza e si fidanza. Con lei arriva il diploma. Ed esce definitivamente dalla prigione che si era costruito. “Non siamo malati. E anche se il mio cervello si rifiuta di ricordare, sono uscito vittorioso. A chi si trova ora nella mia situazione voglio dire: “Chiedete aiuto, andate dallo psicologo. E se i genitori non vogliono, parlate con qualcuno a scuola. Non vi chiudete. Qualcuno c’è sempre. Ma alle volte basterebbe dire ai professori che siamo essere umani, non macchine e non serve urlare”.