Autoisolamento, perdita di speranze, difficoltà di vedere il futuro. Ma anche rabbia, violenza, bullismo. Paolo Crepet, uno degli analisti più attenti dello stato della condizione giovanile, intervistato da Walter Veltroni su “Il Corriere della Sera” del 19 giugno, parla degli adolescenti a margine di un fatto che ha sconvolto l’opinione pubblica: uno youtuber di 20 anni ha ucciso il piccolo Manuel, di appena 5, al volante di un Suv lanciato a 110 chilometri orari, che ha travolto la Smart sulla quale c’erano il bimbo, la sorellina e la madre. Crepet afferma che “un adolescente non inquieto è inquietante”, ma che ieri “una parte dei ragazzi precipitò, fino a morirne, nell’eroina” e “un’altra nel terrorismo”, mentre oggi manca quella “diffusa e coinvolgente partecipazione politica e civile”
Ha influito la pandemia “dura per tutti, ma per loro è stata un’esperienza afflittiva” con “i ragazzi rinchiusi nel loro cellulare”. “Mi viene in mente – dice – il caso del ‘ragazzo selvaggio’ magnificamente raccontato nel film di Francois Truffaut. Un adolescente trovato nel bosco dove aveva trascorso i primi dodici anni della sua vita che si cerca di riportare nel mondo civile. Siamo in pieno illuminismo e la domanda che si fanno i medici che lo curano è: la civiltà porta felicità”.
Le tecnologie, nel relegarci in un mondo virtuale, costruiscono dunque la nostra infelicità? Per Crepet “gran parte del disagio giovanile nasce o si alimenta in relazione con questi strumenti”. Anche lui non darebbeai ragazzi sotto i 12 anni il cellulare così come non capisce “come si possa, da parte dei genitori, pensare di geolocalizzare i figli, se ne comprime la libertà per placare le proprie ansie”.
Crepet quindi allarga il discorso al conflitto generazionale che non esiste più o ha preso altre forme. “Quella cesura era un fatto salutare, ognuno viveva il tempo giusto della sua esistenza. Oggi i genitori vogliono essere più giovani dei figli, tutto questo appiattisce e amicalizza un rapporto che invece deve essere fondato sul riconoscimento dei ruoli. Non esiste più il capitano, il punto di riferimento. È forse il compimento del ‘68, dalla rivolta antiautoritaria. Ma ora una generazione che ha contestato i padri è diventata serva dei propri figli. Non è capace di dire i no, di orientare senza usare l’autoritarismo, ma l’esperienza. C’è un armistizio: io ti faccio fare quello che vuoi, tu non mi infliggi la tensione di un conflitto. Ma così si spegne il desiderio di autonomia, l’ansia di recidere i cordoni, l’affermazione piena della propria identità”.
“Noi – continua nell’intervista – stiamo diventando soli e ne siamo contenti. Abbiamo smesso di parlarci. Nelle scuole, in famiglia, nelle sezioni, nelle parrocchie, nei circoli o nelle piazze. Se vogliamo salvarci dobbiamo disallinearci, dobbiamo rinunciare all’ovvio, vivere la vita da un punto di vista originale. Non dobbiamo replicare, dobbiamo inventare”.
“L’esposizione permanente – conclude -, l’esistenza di un proprio pubblico, quello dei follower, il carattere virale di ogni forma di comunicazione costituiscono motivo di stress e di ansia. La scuola educava anche a conoscere le sconfitte, a far fronte a momenti di difficoltà e di delusione. La dimensione limitata del giudizio, quello delle mura di una classe, ti consentiva di ripartire, se eri caduto. Ora tutto è universale, rapido, spietato. Bisogna riconquistare una giusta dimensione del tempo, uscire dalla fretta del momento. Io credo che questa generazione smarrita cerchi ragioni per sognare e tornare a sperare. Dal buio si esce cercando la via. C’è bisogno di parole, di conflitti sani, di visioni che appassionino. Invece ci circonda il silenzio. Sembra, in questo tempo, che si possa solo aspettare Godot. Ma Godot non c’è”.