“Le comunità terapeutiche sono ancora una delle risposte più importanti al mondo del disagio giovanile. Una comunità non intesa come 30 anni fa, ma dinamica, che vive nella necessità di dare risposte diversificate. La comunità di oggi non deve essere una struttura protetta in cui sei chiuso e attendi che le cose cambino, la vedo oggi come una chiara e evidente realtà di relazione”. Continua il viaggio di “Vita” nell’emergenza delle dipendenze, con un approfondimento sul mondo delle comunità. In un articolo di Ilaria Dioguardi ne parla Biagio Sciortino, che dal 1995 lavora alla comunità terapeutica “Casa dei Giovani” in Sicilia e Basilicata, con otto centri di accoglienza.
Sono oltre 3mila le strutture in Italia e per Sciortino “è fondamentale il supporto psicologico per i ragazzi e le loro famiglie lo stare assieme, la condivisione della ‘comune’ di tipo francese”. Afferma: “Intendo la comunità come luogo di vita, di scambio, di condivisione delle fragilità e del malessere. Il dolore che i giovani portano dentro la struttura non deve essere più visto come qualcosa di cui avere paura, ma deve essere rimodulato e lavorato assieme al ragazzo e alla famiglia. Nelle comunità il sistema abbraccia a pieno regime la prima fase della prevenzione o della remissione del danno (anche se questo termine ormai mi sembra arcaico), con servizi di prossimità: su strada, con ambulatori ambulanti, con accoglienze di ascolto. Poi il passaggio naturale è far maturare al giovane l’idea di accedere a una struttura residenziale, ma per un breve periodo. Oggi non puoi proporre a un ragazzo di stare due anni in comunità. Oggi la comunità la vedo in simbiosi e in sinergia con i servizi pubblici”.
Osserva che le migliaia di persone che accedono in comunità “hanno la fortuna di transitare per i servizi pubblici”. Una volta arrivati nelle strutture “i ragazzi si prendono cura dell’ambiente in cui vivono” e seguono percorsi laboratoriali, di rieducazione relazione, affettiva. “L’aspetto del reinserimento è straordinariamente importante. Se non si cura quest’aspetto, alla fine il ragazzo si ritrova in una società che non riconosce e che non lo riconosce”.
Un lavoro importante è quello con le famiglie. “Il ragazzo dipendente non è altro che l’anello debole della catena, fa palesare che qualcosa all’interno di quel sistema non funziona”. La comunità è un luogo di cura ma è soprattutto un luogo in cui ci si prende, nella totalità, carico della persona. Il servizio pubblico deve affrontare il “grande problema della carenza del personale” e se “anche nelle comunità c’è carenza sono aperte 24 ore su 24, non si ha la sensazione di essere trascurati: noi siamo lì, non possiamo dire alle persone di tornare, per una visita, dopo un mese”.
Si parla molto di giovani, ma “il dolore non conosce ricchezze, stati sociali, età” e pochi parlano delle persone over 50 e over 60. Se “abbiamo avuto casi di ragazzini dipendenti di 11 anni”, vi sono sessantenni che usano sostanze da 30 anni.
Le comunità si sono evolute: appartamenti di reinserimento, micro comunità, servizi ambulatoriali, servizi a domicilio per le persone over 60. “Per me – sottolinea però Sciortino – rimane straordinariamente fresca l’idea di stare assieme, come comunità”. La scommessa del futuro è “intercettare prima possibile le persone con dipendenze” attraverso famiglia, scuola, gruppi di tutti i tipi”.
Secondo Sciortino oggi le dipendenze sono viste “come l’ultima ruota del carro della sanità”. “Le dipendenze – conclude – sono la manifestazione di un disagio di vivere, che abbiamo tutti. Tutti abbiamo bisogno di relazioni umane vere, le dipendenze da sostanze e comportamentali sono indistinguibili le une dalle altre, vano a braccetto. Lo Stato deve capire che deve dare delle direttive, delle idee portanti, deve uscire dalla fase emergenziale, altrimenti rincorreremo sempre queste persone che hanno un mal di vita”.