“Sono rimasta chiusa nella mia stanza per tre anni. Dormivo di giorno e stavo sveglia di notte, non facevo niente, stavo al computer, guardavo il cellulare, non avevo fame, mangiavo una volta al giorno, sempre di notte. Raramente mi lavavo, evitavo sempre di parlare con i miei genitori”. Sconvolgente, non si sono altre definizioni. E’ il racconto di una ragazza riportato in un articolo di Jacopo Storni sul “Corriere della Sera” del 21 gennaio. Un racconto che affonda le radici in un fenomeno non nuovo, chiamato hikikomori, che identifica giovani che si isolano nella loro stanza per mesi se non addirittura per anni. Paura della vita, paura del confronto, paura del fallimento. Così si chiudono in se stessi e tra quattro mura.
Una sindrome che se all’inizio si verificava attorno ai 12-23 anni, ora si manifesta anche molto prima fin dall’età delle elementari. E il covid ha allargato la platea dei colpiti che si aggirava, anti-pandemia, sulle 100mila unità. Il mattino è il momento peggiore: gli altri si alzano, vanno a lavorare, vanno a scuola. Gli hikikomori si ficcano sotto le coperte e non lasciano il letto.
L’articolo sottolinea come l’Italia sia uno dei Paesi in cui il fenomeno è più diffuso. Afferma Matteo Zanon, psicoterapeuta referente del progetto Sakidō della cooperativa L’Aquilone di Sesto Calende, che opera nel recupero di questi ragazzi; “Gli adolescenti vedono adulti stanchi, che hanno poco tempo, che lavorano tanto e guadagnano poco, insoddisfatti, poco propensi all’ascolto proprio perché pieni di problemi”. E così i figli perdono autostima.
Il recupero coinvolge i genitori (ascoltare i figli, star loro vicino infondendo sicurezza, farsi raccontare cioò che provano) ed ovviamente i ragazzi con di psicoterapia spesso anche a domicilio, laboratori di esperienze una volta che la fase del ritiro è superata. Sakidō in giapponese significa ripartire ma anche, senza il segno diacritico sulla o, preoccupazione che, rimarca l’articolo del “Corriere”, è l’altra parte del problema, quella riguardante le famiglie.