Ridotta mobilità sociale, povertà diffusa soprattutto all’interno delle famiglie numerose, scarso accesso alla rete e agli strumenti digitali per la didattica a distanza: l’Italia attraversata dalla pandemia Covid-19 rischia di abbandonare alla povertà educativa una ampia fascia di minori, compromettendo così il suo sviluppo culturale e, quindi, anche economico. Dai maggiori istituti di ricerca nazionali alle Ong, l’analisi è unanime: il Paese rischia una crescita delle diseguaglianze che originano, innanzitutto, in un diseguale accesso all’educazione, ai libri, alla formazione.
Secondo il report annuale dell’Istat per la prima volta i nati tra il 1972 e il 1986 hanno più possibilità (26,6%) di avere una posizione socialmente inferiore rispetto ai genitori che non una superiore (24,4%). Inoltre la povertà assoluta – che nelle ultime rilevazioni pre-crisi epidemica era diminuita rispetto agli anni precedenti grazie al reddito di cittadinanza, pur mantenendosi a livelli molto alti – colpisce soprattutto giovani e minori, un fenomeno peculiare dopo la crisi del 2011.
In questo quadro già critico di bassa mobilità sociale e povertà concentrata sui minori, la chiusura delle scuole agli studenti e l’avvio della didattica a distanza ha posto nuove sfide. La prima, evidente, ha a che fare con le dotazioni tecnologiche delle famiglie: secondo l’Istat la chiusura delle scuole imposta dall’emergenza epidemica può produrre un aumento delle diseguaglianze tra i bambini: nel biennio 2018-2019 il 12,3% dei minori di 6-17 anni (pari a 850 mila) non ha un pc né un tablet ma la quota sale al 19% nel Mezzogiorno (7,5% nel Nord e 10,9% nel Centro).
Lo svantaggio aumenta se combinato con lo status socio-economico: non possiede pc o tablet oltre un terzo dei ragazzi che vivono nel Mezzogiorno in famiglie con basso livello di istruzione si legge nel rapporto. Spiega l’Istat che “il 45,4% degli studenti di 6-17 anni (pari a 3 milioni 100 mila) ha difficoltà nella didattica a distanza per la carenza di strumenti informatici in famiglia, che risultano assenti o da condividere con altri fratelli o comunque in numero inferiore al necessario”.
Ma la dotazione tecnologica è solo un aspetto di un problema più ampio che ha a che fare con la maggiore presa in carico da parte delle famiglie dell’educazione dei propri figli. Questo è chiaramente un fattore di rischio per la crescita delle disparità. In casa, senza il contatto diretto con i docenti, magari in abitazioni piccole o affollate dove è difficile concentrarsi, con genitori che non sempre hanno il tempo o la capacità di supportare l’apprendimento, gli studenti hanno nel libro di testo un punto di riferimento che dovrebbe essere, almeno quello, uguale per tutti. Ma è davvero così?
L’Associazione Italiana Editori ha più volte sottolineato la necessità di garantire un reale diritto allo studio a tutte le famiglie, partendo dalla garanzia basilare di poter acquistare i libri di testo che poi sono anche gli strumenti attraverso cui poter accedere alla didattica digitale integrativa, senza costi aggiuntivi, attraverso le piattaforme digitali messe a disposizione dagli editori. A questo proposito, il governo ha stanziato 236 milioni per il diritto allo studio con cui le scuole possono acquistare libri, dizionari, materiali digitali anche finalizzati ad affiancare i libri di testo per gli studenti con disturbi specifici di apprendimento (DSA) o con altri bisogni educativi speciali (BES).
È un passo significativo, in un quadro che rimane comunque molto critico. Le previsioni indicano che a settembre saranno più di un milione e mezzo gli studenti di famiglie in difficoltà, in un quadro sulle aperture degli istituti che rimane incerto. Quel che invece è certo è che il Paese non si può permettere di veder calare i propri livelli di scolarizzazione, già inferiori alla media europea. In Italia hanno almeno un diploma quasi i tre quarti dei giovani tra i 30 e i 34 anni, in crescita di oltre 10 punti percentuali rispetto a dieci anni fa, ma nell’Unione Europa a 27 membri la media è dell’84%.
Soprattutto, il nostro Paese continua ad avere livelli di abbandono significativi. In Italia, le uscite (abbandoni) precoci dal sistema di istruzione e formazione – misurate come quota dei giovani tra 18 e 24 anni con al più la licenza media o una qualifica biennale e non impegnati in formazione – sono diminuite dal 35,1% nel 1994 al 13,5% nel 2019. Tra il 2002 e il 2019 il distacco con l’insieme dei Paesi dell’Unione si è ridotto da 7,3 a 3,3 punti percentuali, con andamenti però molto disomogenei tra Nord e Sud d’Italia. Ma stiamo comunque parlando di numeri pre-crisi: quelli che più preoccupano, ma che non sono ancora disponibili, riguardano la dispersione e gli abbandoni nell’ultimo anno, con le scuole incapacitate a svolgere il loro ruolo di presidio sul territorio.
Su “La Stampa” il giornalista Bernardo Basilici Menini ha scritto un interessante articolo sulla situazione torinese, ma che può allargarsi, per le considerazioni fatte, a tutto il Paese. Così come un secondo articolo con l’intervista ad un preside: “I social aumentano la solitudine, la scuola non può risolvere tutto”. Li riportiamo in allegato.