Una lunga intervista sul “Corriere della Sera”. Don Giuseppe Dossetti, sacerdote da mezzo secolo, fondatore del Ceis di Reggio Emilia mentre don Giorgio Bosini realizzava lo stesso percorso a Piacenza. Due preti vicini alla gente, due uomini che si sono caricati sulle spalle le sofferenze degli altri, due menti lungimiranti che hanno fatto progredire le rispettive città, due persone di grande fede che hanno capito i giovani aiutandoli con le parole e con i fatti. E due amici (nella foto). Insieme hanno frequentato i corsi del Ceis a Roma quando la droga era ancora una terribile sconosciuta, insieme hanno affrontato difficoltà, incomprensioni, delusioni, gioie.
Rispondendo alle domande di Stefano Lorenzetto, don Dossetti ricorda quel periodo e sembra di ascoltare don Giorgio. Lo smarrimento di fronte a esseri storditi dalla droga – “I tossicomani mi facevano orrore, li ritenevo irrecuperabili” – e gli errori dei primi approcci – “Li consideravo marziani anziché persone” – fino ai tre mesi passati a Roma con don Mario Picchi che gli aprirono gli occhi: “Nel 1979 era scoppiata l’emergenza droga. Mi convocò il vescovo: ‘Puoi occupartene? Dimmi pure di no, come hanno fatto altri tuoi confratelli. Ma sappi che sei l’ultimo in lista al quale lo chiedo’. Accettai”. Pressappoco quello che accadeva a Piacenza all’indimenticabile don Giorgio chiamato in Curia da monsignor Manfredini.
Una sfida che per don Dossetti dura tuttora con momenti di grande dolore e di pianto. “C’era e c’è una forte componente emotiva. Si piange anche di gioia di fronte alla bellezza di una persona che si mette davanti a te nella sua verità e si fida”.
Dei giovani, della tossicodipendenza, del disagio si è occupato dopo un lungo cammino in cui ha lavorato in fabbrica (centrifughe e filtri per il vino) per diversi anni, part time anche successivamente all’ordinazione per capire come vive la gente. La croce come riferimento costante e guida. “Tutto confluisce lì, nella croce: la consolazione, il senso della storia e della vita, il mistero di Dio che prende su di sé la tragedia dell’uomo”. Diventato sacerdote per una promessa fatta a sei anni in confessionale (il parroco gli disse “Stringiamo un patto, io e te? Da grande farai il prete. D’istinto acconsentii, mi pareva un mestiere nobile”), a 14 anni maturò la certezza “che Lui mi chiamava”. Nutre un grande “amore” per i diseredati e sottolinea: “La Chiesa ha bisogno dei poveri. Sono loro a conservarle la fede”.