Una bambina di Sulmona abusata dall’età di dieci anni da maschi poco più grandi di lei; un bimbo di otto aggredito in un parco alla periferia di Roma da tre fratellini; un quattordicenne che si è tolto la vita a Latina perché non avrebbe più tollerato le angherie dei bulli. Tre storie e tre contesti completamente diversi, tutti però con protagonisti giovani o giovanissimi. Ripercorrendo il filone di tre gravissimi fatti avvenuti negli ultimi giorni, Riccardo Bruno cerca un connotato comune intervistando su “Il Corriere della Sera” Claudio Mencacci, psichiatra e presidente della Società italiana di Neuropsicofarmacologi.
E per il professor Mencacci questo connotato è “quello dell’aumento dell’aggressività giovanile, sia diretta verso l’esterno che verso se stessi”. Episodi che si moltiplicano. “Sono tanti i fattori che si intersecano: una cultura individualistica, uno scarso dialogo tra genitori e figli. Ma quello che colpisce di più, come nel caso di Sulmona, è che questa forma di prevaricazione è spesso influenzata dai media e dalla tecnologia”.
“Filmare o filmarsi – commenta lo psichiatra – è la nuova moneta sociale perché soddisfa non solo l’impulso di essere notati ma anche di esercitare una sorta di supremazia all’interno di un gruppo, fare qualcosa che colpisce l’attenzione altrui”. Un mondo in cui “i gesti violenti hanno più facilità di diventare virali rispetto a quelli positivi” provocando una “normalizzazione della violenza” ritenendo “di essere in qualche modo protetti o nascosti nella rete”.
Non solo: un mondo in cui “l’altro grande assente è il senso di autorità, una difficoltà a pensare che c’è una conseguenza alle proprie azioni”, perché “l’autorità è percepita come debole o, in alcuni casi, addirittura come ingiusta”. Per il professor Mencacci sia la famiglia sia la scuola “sono lontane da una funzione educativa che è fondamentalmente sociale: ovvero quella di insegnare il riconoscimento dell’altro, la condivisione, la solidarietà e il rispetto reciproco”. I giovani che cosa possono apprendere dagli adulti – si chiede – “se di fronte al minimo problema li sentono ululare o inveire contro l’altro”.
Il tessuto educativoè andato via via logorandosi e trionfa la cultura dell’individualismo. Come intervenire? “Da un lato dovremmo tornare a insegnare a gestire le emozioni e dall’altro a coltivare l’empatia. Che a volte si confonde con il buonismo, ma non è la stessa cosa: è il riconoscimento della propria e dell’altrui dignità, la comprensione che certi gesti violenti non premiano ma ti fanno intascare una moneta sociale che non ha alcun valore”. Passando al concreto. “I giovani vanno coinvolti nella costruzione di nuove regole. Il mondo sta cambiando, ed è chiaro che abbiamo la necessità di riuscire a trovare dei punti che uniscano le generazioni. Non funziona più il semplice passaggio di testimone senza un momento trasformativo”.